I CAPITELLI



Parlare dei capitelli della pieve di Gropina significa affrontare il problema della datazione della chiesa, variamente dibattuto dagli studiosi e ancora non giunto a una definizione concorde. Il fatto è che a Gropina si riconosce la mano di maestranze diverse sia come appartenenza stilistica che temporale, a cui si deve aggiungere la preesistenza dell’edificio altomedievale che sarà demolito non prima, ma durante la costruzione della pieve romanica per consentire ai numerosi fedeli di continuare ad assistere alle Sante Messe per più tempo possibile durante l’apertura del cantiere.
Rimandando alla letteratura specifica per un panorama particolareggiato, prenderemo qui in esame le due ipotesi più seguite: quella per così dire “classica” di Mario Salmi (1955 e 1957) e quella più recente di Francesco Gandolfo (2003). Il Salmi ritiene che la costruzione della pieve sia stata avviata nella prima metà del sec. XII con la facciata e la navata principale, per proseguire nei decenni successivi con quella destra (esclusi i capitelli), l'avvio di quella sinistra e il paramento della tribuna e della facciata e, prima del 1191, la realizzazione dei capitelli della navata destra; all'inizio del XIII secolo lo studioso assegna il completamento della navata sinistra e dell'abside, fino alla costruzione del campanile intorno al 1233.
Per il Gandolfo sono riconoscibili due fasi costruttive: i lavori sono iniziati verso la metà del sec. XII dall'abside e proseguiti con il lato sinistro della pieve perché lo spazio per l'altro era occupato dalla chiesa longobarda (questo darà luogo al mancato allineamento di alcuni elementi in facciata, di cui abbiamo parlato, e anche della facciata stessa rispetto alla zona absidale), fino ad arrivare alla costruzione della facciata con all'interno il semipilastro a sinistra dell'entrata: praticamente l'abside, il muro esterno sinistro e la facciata sono costruiti intorno alla chiesa altomedievale, e il Gandolfo collega a questo anche il leggero sfasamento tra le colonne della navata destra e quelle della sinistra, che infatti non si fronteggiano perfettamente, mentre invece la coppia prima dell'abside, che risulta oltre l'area di quella della chiesa longobarda, è allineata: questo per lo studioso è anche una prova che la costruzione romanica sia iniziata proprio dall'abside, e non dalla facciata. La seconda fase dei lavori inizia dopo la demolizione della pieve preesistente e prosegue fino al completamento della chiesa: lo studioso pensa che all'interno il passaggio tra i due cantieri sia forse avvenuto tra la seconda e la terza coppia di colonne, per motivi stilistici di cui parleremo tra breve.
E' vero che la costruzione di una chiesa inizia generalmente dall'abside, per terminare con la facciata, e il naturale avanzamento degli studi permette di formulare ipotesi più circostanziate: il problema dei cantieri operanti alla pieve di Gropina e dell'attribuzione dei suoi capitelli è di non facile soluzione per gli storici dell'arte, mancando anche ogni fonte documentaria al riguardo. Questo concerne anche l'interpretazione di ciascun capitello e di un eventuale progetto unitario, che non di rado nelle chiese romaniche non c'è, ma si combinano scene del Vecchio e Nuovo Testamento con immagini tratte dal mondo vegetale e animale reale e fantastico, mestieri, simboli, o addirittura, come anche nel chiostro dell'abbazia di Moissac (Francia meridionale), reliquie di Santi racchiuse nei capitelli per arricchire il significato del chiostro quale luogo di sosta e di meditazione. Se un programma unitario esiste, molto spesso è incentrato sulla salvezza dell'anima: l'uomo medievale, tranne ecclesiastici, intellettuali e pochi altri, non sa leggere né scrivere, ed è nel contempo molto permeato di una visione apocalittica della religione; la sua vita scorre in gran parte nel timore del peccato, della presenza demoniaca e della dannazione eterna, mentre in epoca paleocristiana il defunto è raffigurato spesso nel Paradiso visto come giardino o anche seduto al banchetto eucaristico, tra immagini legate alla resurrezione. Ma con l'arrivo dell'anno Mille si risvegliano timori atavici, la diffusione dei testi apocalittici permea tutti i ceti sociali; l'Apocalisse e le sue visioni terrificanti entrano a far parte del repertorio figurativo medievale, angoscioso e ammonitore: "l'ora qui vedi, e l'ora tua non sai", si legge vicino a tanti orologi sulle torri pubbliche (come era per esempio a Castelfranco di Sopra, non lontano da Gropina); e Masaccio, nella sua
Trinità in Santa Maria Novella a Firenze, fa dire allo scheletro "io fu' già quel che voi sete, e quel ch'i' son voi ancor sarete"... carestie, guerre, igiene spesso approssimativa, medicina ancora non progredita, tutto questo rende la vita assai precaria: perciò bisogna vigilare per evitare il male in agguato e, nel caso di una morte improvvisa, la perdita della propria anima. Le chiese si rivestono di capitelli scolpiti, di affreschi, mosaici, figure in pietra che vigilano sulle entrate, unite alle voci dei sacerdoti che dai pulpiti diffondono la salvezza attraverso la Parola di Dio: i luoghi di culto cristiani diventano così delle Bibbie di pietra, libri sacri aperti e comprensibili a chiunque, perché ogni uomo medievale, anche l'analfabeta, conosce bene il significato simbolico di ogni raffigurazione che talvolta sfugge a noi moderni.
Questi significati simbolici sono tratti da raccolte enciclopediche chiamate genericamente
Bestiari, in voga soprattutto nel XII e ancora di più nel XIII secolo ma risalenti anche a epoche assai precedenti: il capostipite in questo senso è il Physiologus (ossia lo studioso della natura), che vede la luce tra il 140 e il 410 circa ad Alessandria d'Egitto, all'epoca ancora faro di civiltà e di cultura, scritto in greco da un autore ignoto vicino forse all'ambiente gnostico: il Physiologus contiene la descrizione simbolica di animali, piante e anche pietre con riferimenti alle Sacre Scritture presentati come allegorie di realtà celesti o dei diversi comportamenti umani. A quest'opera sarà ispirata la maggior parte dei bestiari medievali e anche alcuni bestiari amorosi, in una tradizione che come abbiamo detto durerà fino al XIII secolo circa: tra i più celebri gli Etymologiarum libri XX di Isidoro da Siviglia (560 c.-636), databili all'inizio del VII secolo e diffusissimi per buona parte del Medioevo con le aggiunte di Beda il Venerabile (672 c.-735) e in epoca carolingia di Rabano Mauro (780/84-856); uno dei più belli è il Bestiario di Aberdeen, del XII secolo (Aberdeen University, MS 24), con meravigliose miniature che illustrano non solo un gran numero di animali, piante e rocce, ma anche la creazione e le diverse nature dell'uomo. Un bestiario particolare è il Liber monstrorum de diversis generibus, dell'VIII secolo, che tratta solo di animali fantastici e creature mostruose ispirandosi agli autori latini classici, senza intenti moralizzatori.
Nei bestiari sono raccolte caratteristiche reali, scientifiche e simboliche a volte anche contrastanti di animali reali e fantastici: alla mentalità medievale non interessa tanto la veridicità scientifica di ciò che è scritto nei bestiari, quanto piuttosto l'aspetto simbolico, i significati che quelle creature possono assumere; anche la Chiesa, con le omelie, contribuisce a intensificare la potenza simbolica di esseri che i fedeli possono vedere raffigurati all'esterno e all'interno delle chiese. Inoltre, con le Crociate, si conoscono animali nuovi, mai visti prima: si pensa allora che se esistono creature così "strane" come la giraffa o il rinoceronte è possibile anche l'esistenza reale di draghi e chimere. Inoltre, come abbiamo visto per il pulpito e per l’uso dell’alabastro, allegorie e figurazioni legate al mondo classico vengono spogliate del loro significato pagano e rivestite di simbologie cristiane: accadrà ancora nella stessa pieve, in alcuni capitelli.
Le chiese medievali diventano così un ricco florilegio di esortazioni, ammonimenti, specchi della vita di ogni giorno, e anche, come suggerisce Onorio di Autun (1080-1154) nel suo
Gemma Animae, rappresentazione del mondo, dell'universo creato dall'unico Dio. Questo accade anche a Gropina, pur con le interruzioni subite e alcuni rimaneggiamenti dovuti all'alternarsi dei cantieri: i suoi capitelli vedono infatti all'opera maestranze diverse per formazione e modo di sentire. Le tre navate sono spartite da quattro colonne e due pilastri per parte, dodici in tutto come il numero degli apostoli (i discepoli che "reggono" anche simbolicamente la Chiesa del Cristo): prenderemo in esame separatamente ciascun capitello figurato delle colonne e dei due semipilastri di controfacciata, con le varie interpretazioni simboliche e le attribuzioni. Quasi tutti quelli della zona absidale appartengono secondo Francesco Gandolfo a un cambiamento nel progetto iniziale rispetto al programma originario, e grazie a somiglianze stilistiche (foggia e lavorazione delle foglie di acanto e altri particolari) sono assegnati dallo studioso a maestranze in stretto contatto con quelle operanti alla pieve di Arezzo nella metà del XII secolo: si tratta dei capitelli di ordine composito - che uniscono cioè le volute ioniche alle foglie d'acanto corinzie - delle semicolonne ai lati dell'abside e di quelli ugualmente compositi dei semipilastri che si fronteggiano delimitando le aree degli altari laterali, modificati dai restauri del 1422 insieme alla colonnetta angolare sinistra con il telamone, ossia la figura maschile che sostiene l'imposta di un costolone della volta a crociera. Il capitello corinzio della colonna subito a sinistra dell'abside è stilisticamente vicino a questi di cui abbiamo parlato; alcuni di essi, come ha rilevato il Gandolfo, sono stati abbozzati prima della posa in situ e quindi compiuti o modificati.
Tra la quinta e la sesta campata della chiesa invece delle grosse colonne monolitiche troviamo una coppia di robusti pilastri quadrangolari, come a delimitare anche visivamente la zona presbiteriale riservata al celebrante; questi pilastri, invece dei capitelli, hanno solo pulvini, elementi a forma di tronco di piramide rovesciata situati fra il capitello e l’imposta dell’arco.
Tratteremo adesso separatamente gli altri capitelli, iniziando per comodità del lettore e del visitatore della pieve dal lato sinistro ma tenendo conto del susseguirsi dei cantieri e delle maestranze ipotizzato dal Gandolfo e attualmente tra i più condivisi dagli studiosi, non dimenticando tuttavia attribuzioni precedenti: era accettata infatti una distinzione tra i capitelli della navata destra, meno recenti e con echi stilistici padani della seconda metà del sec. XII, e quelli della navata sinistra attribuiti a lapicidi emiliani vicini al grande Wiligelmo, attivo qualche tempo prima al duomo di Modena; questa vicinanza stilistica era spiegata con l’appartenenza di Gropina all’abbazia di Nonantola ed è stata avanzata da Mario Salmi; Roberto Salvini (1966) suggeriva per questi capitelli contatti con maestranze provenzali, presenti anche al cantiere di Gropina.


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